Perché si deve parlare di femminismo intersezionale

Intersezionalità è un termine coniato dall’attivista e giurista statunitense Kimberlé Crenshaw nel 1989 e indica l’intersezione di più identità sociali e le possibili oppressioni e discriminazioni derivanti da esse. Il femminismo mainstream, quello della prima ondata, della borghesia del XIX e dell’inizio del XX secolo, vede quindi opporsi un tipo di femminismo più inclusivo, che tiene conto delle diverse realtà di ogni donna e che ascolta ogni voce: il femminismo intersezionale.
 
Questo tipo di movimento si basa su un concetto tanto semplice quanto ignorato per molto tempo: esistono più livelli di oppressione. Per molto tempo infatti era comune il pensiero secondo cui tutte le donne fossero discriminate allo stesso modo, ma una semplificazione del genere mette a tacere le voci delle donne che per lungo tempo sono state silenziate, anche dalle battaglie che avrebbero dovuto dare loro maggiori diritti. Una donna di colore non subisce le stesse discriminazioni di una donna bianca, così come una donna bianca omosessuale della working class non subisce le stesse discriminazioni di una donna bianca etero, anch’essa operaia. Cultura, classe, orientamento sessuale, colore della pelle, disabilità: tutte queste intersezioni, che costruiscono l’identità di una persona, possono anche demolirla attraverso le oppressioni derivanti dall’esterno.
 
Angela Davis, con il suo Donne, razza e classe (1981) scritto in carcere nel 1971, una pietra miliare dell’intersezionalità volto a riscoprire la storia dimenticata delle ribellioni delle donne nere contro la schiavitù, sottolinea come l’esperienza vissuta dalle donne nere (nello specifico negli Stati Uniti) è totalmente differente da quella delle donne bianche, riflettendo tale differenza sui movimenti politici che ne derivano.
 
La stessa Davis pone l’accento sugli stupri sistematici ad opera degli schiavisti e come venivano raccontati e “gestiti”, tramite leggi ad hoc: nello specifico, nei racconti del XIX secolo la donna nera, vittima di stupro, veniva raccontata come remissiva e accondiscendente. Lo stupro diventava elemento di sottomissione delle donne nere da parte dello schiavista bianco e le leggi sulla violenza miravano a tutelare gli uomini delle classi superiori, le cui figlie o mogli rischiavano di essere aggredite, mentre lo stupro ai danni della working class non suscitava le stesse attenzioni, sottolineando quanti pochi fossero gli uomini bianchi ad avere subito un processo per violenza sessuale[1].
 
Anche l’ambito lavorativo è importante da prendere in considerazione: sempre secondo l’attivista, il capitalismo come sistema economico di sfruttamento, traeva e trae tuttora forza dalle disuguaglianze che permettevano la disponibilità di forza-lavoro ampiamente sottopagata. Ciò significa che una donna nera, in quanto tale, era sfruttata maggiormente rispetto ad altre categorie, proprio per il suo colore della pelle: “Razzismo e sessismo frequentemente convergono e la condizione delle donne lavoratrici bianche è spesso legata allo status oppressivo delle donne di colore”[2].
 
Per questo, oggigiorno, si sottolinea anche come la lotta femminista è anche anti-capitalistica.
 
Le donne non sono uguali e questa diversità deve solo essere un fattore in più nella lotta contro le disuguaglianze: “Il femminismo implica molto di più che non la sola uguaglianza di genere. […] Deve implicare una coscienza riguardo al capitalismo, al razzismo, al colonialismo, ai postcolonialismi e all’abilità, e una quantità di generi più grande di quanto possiamo immaginare, e così tanti nomi per la sessualità che mai avremmo pensato di poter annoverare”[3].
 
[1] Letizia Assorti, A proposito di Angela Davis, Donne, razza e classe
 
[2] Angela Davis, Donne, razza e classe, 1981
 
[3] Angela Davis, La libertà è una lotta costante, 2016

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