TRIGGER WARNING: REVENGE PORN, VIOLENZA

In questo testo si parlerà del bisogno di una nuova narrazione del revenge porn, la pratica di condivisione e pubblicazione di foto intime senza il consenso e l’autorizzazione della persona rappresentata, dello stupro e di qualsiasi altra ignobile violenza perpetrata ai danni di una donna. 

Se non sei pront* a leggerne, non sentirti in colpa, non è un obbligo esserlo sempre, la tua serenità mentale è ciò che di più importante si ha, è un diritto proteggerla. 

Ogni storia è formata da tre parti principali: un inizio, un corpo centrale o sviluppo e una fine. Questa regola sembra essere un paradigma narrativo assoluto, tranne nel caso in cui si sia superato il limite sacro di una donna. È giusto usare le parole corrette perché quando si nominano, le cose iniziano ad esistere. È necessario dire “revenge porn”, “stupro”, “violenza”.
La storia – in questi casi – cambia: ha un inizio ma nessun corpo centrale e nessuna fine. 

Dov’è, nella narrazione a cui siamo tutt* abituat*, la donna dopo aver ricevuto violenza, dopo essere stata vittima di revenge porn, dopo essere stata stuprata? Dov’è la possibilità di rinascita? Dov’è la propria validità di persona a prescindere dalla violenza ricevuta? 

La storia, in questi casi, parla di paura, vergogna, solitudine, senso di colpa, immobilità, terrore, dolore. In seguito ad una violenza, la rappresentazione della donna sembra fermarsi all’evento. Questo ci fa apparire inverosimile che una donna dopo uno stupro, ad esempio, possa condurre una vita normale, possa continuare ad essere desiderante, slanciata verso obiettivi e sogni.               

La narrazione sul revenge porn è presentata sempre da una perorazione che ha l’unico scopo di convincere le donne a rimanere entro certi limiti, limiti che le proteggono da spiacevoli situazioni di imbarazzo ed esclusione sociale. Nonostante sia una inaccettabile forma di potere, il focus della soluzione del problema si sposta sulla responsabilità della donna, la donna si trasforma in baricentro ed elemento riequilibrante solo nel caso in cui venga richiesta la messa in pratica di un’accortezza che facilita solo il perpetrarsi di un ingranaggio sociale tossico. 

Si richiede alla donna di autodisciplinarsi, anche quando la mancanza di consenso rende passive ogni sue volontà. Si richiede alla donna di porsi dei limiti personali e non all’intera collettività di porre limiti etici. Volendo fare affidamento alla logica, invece, si potrebbe dedurre che una forma di potere si possa smantellare riferendo l’attenzione agli elementi portanti del potere stesso e sottolineando l’ingerenza dell’intersezione tra personale e politico. 

Ricorderemo, senza dubbio, il caso di Tiziana Cantone, ragazza che si suicidò dopo anni di sofferenza e depressione causate dalla violenza della gogna mediatica che le fu riservata dopo la pubblicazione di video senza il suo consenso su ogni social network e piattaforma online. 

L’unica dimensione della personalità di Tiziana a cui la collettività, dopo la diffusione dei video, fece attenzione, fu la sua dimensione sessuale. È questo il punto tossico e mortale della narrazione: Tiziana Cantone non è morta per la sua libertà sessuale, non è morta per la profanazione della sua intimità. Tiziana è morta perché, ancora oggi, la libertà sessuale di una donna è una colpa da punire. Tiziana è morta perché la sfera sessuale di una donna deve comunque rispettare degli standard che le consentano di essere rappresentata e rispettata come donna docile e accomodante. Tiziana è morta perché il pubblico tritacarne, supportato dal nostro silenzio, non ha perdonato la sua non adesione agli standard richiesti. Tiziana è morta soprattutto perché la società le ha detto chiaramente che la sua disinibizione resa pubblica l’aveva trasformata in un relitto umano, senza dignità, senza alcun diritto, senza possibilità. 

Il vero problema non sembra essere, quindi, l’assenza di consenso per la pubblicazione dei video in questione, il problema sembra essere che Tiziana abbia fatto ciò che è visibile nei video. Secondo questo criterio di pensiero Tiziana è colpevole, meritava lo shaming ricevuto. Volersi proteggere non è un errore, ma non può in alcun modo essere interpretato come la soluzione. Non ci si protegge dal revenge porn rispettando “regole di decenza”, limitandosi nella propria sessualità, nascondendosi, non filmandosi quando lo si desidera, non essendo liberi, non inviando foto di nudo ai propri partner o a chiunque altro, non mostrandosi in costume sui social, anche perché ci sono dei programmi che permettono a malintenzionati di spogliare virtualmente persone che, in realtà, si sono fotografate vestite. 

Riflettiamoci: se c’è un modo di denudare senza consenso e, in seguito, di pubblicare immagini modificate senza consenso, limitarsi è davvero la soluzione? Non mostrarsi, non vivere serenamente la propria sfera sessuale senza porsi limiti imposti è davvero la modalità decisiva per porre fine a questa ignobile forma di potere, per proteggersi dalla gogna mediatica? 

Il nostro sistema è sicuramente punitivo e non rieducativo e questo appare ancora più grave e paradossale quando questo sistema si scaglia contro la vittima, quando la punizione viene inflitta alla persona che il sistema dovrebbe supportare, sostenere, spalleggiare.

La sfera sessuale della donna è infestata da una malerba narrativa orticante, plasmata da un’educazione al contrario che ha la pretesa di ricercare le responsabilità lì dove dovrebbe esistere solo comprensione, empatia, supporto, causando un’opera di prevenzione velenosa: copriti, non inviare quella foto, non indossare quella gonna, non frequentare quel luogo, non passeggiare di notte, non sentirti libera di provare piacere, non sentirti in diritto di poter avere desideri sessuali, non sentirti in diritto di mostrarti libera. 

E se provassimo a smantellare questa forma di poter svilendo il suo punto di forza: la vergogna? Se la nostra sfera sessuale venisse rispettata e non relegata ad un gineceo di decoro e dissimulazione? Se venissimo educate a non sentirci in colpa di essere sessualmente desideranti? Di essere sessualmente libere? A quel punto chi potrebbe ferirci? Chi potrebbe usare contro di noi qualcosa che non viene più percepita come una colpa? Il primo step per avviare l’opera di smantellamento di forme di potere è quello di includere l’espressione della propria sessualità tra i nostri diritti inviolabili. 

Mandare foto di nudo accertandosi prima del consenso dell’altra persona, fare sexting sono forme di espressione lecite e devono essere considerate e rispettate come diritti al pari di altri diritti costituzionali. La sfera sessuale di ogni persona ha diritto ad uno spazio determinante nel dibattito pubblico. 

L’opera di smantellamento di un potere deve, però, aberrare qualsiasi svalutazione dello status di vittime delle persone vittime di revenge porn e violenza fisica, verbale e psicologica e qualsiasi sottovalutazione della gravità della violenza e delle azioni svolte in totale mancanza di consenso. 

Una nuova narrazione è necessaria per donare alle donne nuove possibilità, nuove visioni ma non ha l’intenzione di rendere universali e performanti le modalità di riemersione da un dolore. 

Una nuova narrazione circa questi temi ha l’unico scopo di raccontare una storia oltre quel dolore legittimo. Funge da supporto per chi è vittima di abusi o violenze, non è, certamente, punto inIziale per un cambiamento sociale.

 Una nuova narrazione non rende meno urgente la necessità di rimodulare la mentalità della comunità, iniziare a raccontare la parte mancante della storia non potrà sostituire l’educazione al consenso e al rispetto del nostro prossimo ma potrà aiutare le persone a pensarsi valide e di vivere serenamente e liberamente la propria sfera sessuale ancora, purtroppo, resa marginale rispetto alla sfera sociale e pubblica di ognun*. 

Una nuova narrazione viaggerà sempre parallelamente ad una denuncia forte e chiara di queste azioni violente e abusanti, perché se è fondamentale creare un asse di supporto per le donne è altrettanto necessario riconoscere la privacy come un diritto umano collettivo e inviolabile. 

Quest’ultimo punto è strettamente collegato con il conseguimento di una nuova e più sana narrazione: se si considera la privacy come un diritto umano, si comincerà a pensare che il problema non è ciò che si fa nella propria intimità ma che quella intimità venga disturbata da interferenze esterne. 

Si riuscirà a spostare il focus della risoluzione del problema lì dove il problema effettivamente nasce.

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