Femminili professionali: molto più di una questione linguistica

La declinazione al femminile dei nomi di professione è diventata, negli anni più recenti, argomento di accese discussioni sui social, in tv o nelle più banali conversazioni da bar. Da parte di molte persone l’impiego dei femminili professionali è considerato una forzatura della lingua, uno sghiribizzo tutto delle donne che non ha alcun fondamento. In realtà, come spiega bene Vera Gheno che sul tema ha dedicato un intero libro (Femminili singolari, 2019), dal punto di vista prettamente linguistico il problema non sussiste in quanto la morfologia della nostra lingua prevede già l’esistenza e la formazione – sulla base di precise regole – dei corrispettivi femminili dei termini maschili riferiti ad essere umani (così come ad animali). Dunque, parole come avvocata, architetta, ingegnera, ministra, assessora, sindaca – per citarne alcune – sono da sempre esistite e non costituiscono affatto dei neologismi o frutto di pura invenzione. Se questi femminili, fino a poco tempo fa, hanno trovato poco o quasi nessuno spazio nel linguaggio comune è perché le donne, di fatto, solo di recente hanno avuto accesso a posizioni e carriere prima esclusivamente maschili e, di conseguenza, non ci si era mai posto il problema di nominarle. In effetti, la questione dei nomi delle professioni al femminile non sorge in riferimento a settori lavorativi in cui, da sempre, le donne hanno avuto un ruolo: usiamo normalmente e in maniera del tutto naturale maestra, professoressa, sarta, infermiera.

Più che un problema linguistico, la percezione dei femminili professionali come insoliti, superflui, cacofonici o il loro essere guardati con diffidenza e perplessità, è un problema di natura sociale e culturale che affonda le proprie radici in un pensiero ancora sessista. Le remore nel loro uso nascono, infatti, dalla difficoltà ad accettare e riconoscere come normale la presenza femminile in certi ambiti lavorativi, avvertita ancora come qualcosa di anomalo ed eccezionale.

Se chiamare una donna professoressa anziché professore non è una questione ideologica, non dovrebbe esserlo nemmeno chiamare architetta un’architetta. Tuttavia, data l’asimmetria esistente ancora oggi tra uomini e donne in ambito professionale (e non solo), l’uso dei femminili diventa, giocoforza, una rivendicazione per dare visibilità e riconoscimento alle donne professioniste.

 

In tal senso, interessante è il lavoro portato avanti negli ultimi anni dal collettivo RebelArchitette per promuovere l’applicazione del termine architetta nel timbro professionale. Dal 2017 ad oggi, ad accogliere l’iniziativa del collettivo, dando la possibilità alle iscritte di fare richiesta del timbro al femminile, sono stati gli Ordini Professionali di Bergamo, Roma, Lecce, Napoli, Milano, Torino e Udine. Di recente, alla lista si è aggiunta anche Caserta in seguito alla richiesta inoltrata da Maria Santoro, titolare di uno studio di architettura a Succivo, alla quale noi di Officina Femminista abbiamo rivolto qualche domanda. «Esercito questa professione da oltre dieci anni e ho dovuto lavorare il doppio per veder riconosciuto il mio ruolo. Nonostante sia titolare di uno studio professionale sono spesso i miei collaboratori a venir identificati e rispettati come professionisti», dichiara Maria Santoro mettendo in evidenza la disparità di genere nel suo campo. «La richiesta del timbro al femminile è arrivata in maniera “fisiologica” in un lungo arco temporale. Inizialmente, ho accolto in maniera automatica la “o”, perché unica lettera disponibile, accettata e formalizzata. Poi, il confrontarmi con un mondo professionale femminile scalpitante, pieno di idee, progetti, forza e voglia di fare mi ha permesso di maturare l’idea di adottare la “a”. Ho iniziato così io stessa, non senza qualche sforzo, a definirmi architetta ricevendo spesso in risposta battute e curiosità. Col tempo, però, amici, colleghi e clienti non solo hanno accettato la mia “a” ma ne hanno anche compreso e stimato il valore». Con queste parole Maria Santoro testimonia che abituarci all’utilizzo dei femminili professionali è possibile e può contribuire a normalizzare agli occhi e alla mentalità delle persone la presenza delle donne in determinate professioni. Ci vuole del tempo ma tanto vale iniziare!

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