Avere 20 anni a Genova 2001

Avere vent’anni a Genova 2001 voleva dire essere figli di un tempo che da Seattle a Porto Alegre, passando tra i vari social forum sembrava voler ridisegnare una geografia militante e spontanea di resistenza.
A Genova si era tuttə unitə per disobbedire alla logica delle guerra e del dominio.
Le voci dei centri sociali, associazioni, partiti, sindacati, singoli esseri umani, uniti contro uno sviluppo diseguale.
Non potevamo farci complici della perpetuazione della supremazia capitalistica, quella dei pochi e sovrani.
Un popolo in marcia per sfidare la globalizzazione neoliberista, una marea umana che si riscopriva comunità disobbediente per ripensare a dinamiche singolari e collettive che facessero a meno della logica dell’oppressore e dell’egemonia.
Genova come confronto, come contro-vertice, come seminari e cortei.
Genova come contro narrazione necessaria e partecipata da donne, uomini, e soggettività altre insieme per i diritti delle masse oppresse.
Genova come rivoluzione e rumore,
Genova come barricate,
Genova come mezzi militari e lacrimogeni,
Genova come fiamme e ambulanze,
Genova come repressione,
d’improvviso Genova come la Palestina,
Genova come assassinio,
come corpi violati e cittadinanze ferite.
La presenza dei collettivi femministi e dei vari gruppi di militanza come quello della Marcia Mondiale delle Donne e di numerose attiviste, militanti e politiche é stata fondamentale e necessaria allo sviluppo delle piazze tematiche che si susseguirono lì in quelle settimane. Il confronto e i dibattiti che animarono il Genova Social Forum attraverso temi diversi, la necessità di fare critica e decostruire paradigmi di potere, e dare vita a discorsi della differenza fecero di questo approccio un modo di procedere assolutamente femminista.
Era un coro che popolava le strade, le piazze, le assemblee, che parlava lingue diverse, ognunə arrivatə con la sua storia, personale e politica . Un coabitare di pratiche, e intenti diversi che si scagliava unito contro un potere che viveva del saccheggio del lavoro e della vita altrui.
Risuonarono le parole di chi aveva già capito o di chi avrebbe capito proprio dopo quei giorni fragili e miseri, che bisognava liberarsi della lingua del dominio, e crearne una nuova, lingua franca, libera, non più sottomessa, e ritrovare un respiro unito al largo, verso l’orizzonte.
Dopo vent’anni siamo tuttə ancora qui dalla stessa parte, ad attendere un soffio di liberazione.
Perché era vero e sempre lo sarà che un altro mondo non solo è possibile, ma é necessario.

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